lunedì 27 febbraio 2006

Grazie Roberto, per aver pubblicato una poesia di Giovanni Raboni, che mi permetto di adattare in questo post.


                   Canzone dei rischi che si corrono 
                                  


                                          Vai all'immagine a grandezza naturale        Un’ossessione? Certo che lo è. 



                                Come potrebbe non ossessionarci 
                                
                                 la suprema pornografia
                                dell’astuzia fatta oggetto di culto,
                                della prepotenza fatta valore,
                                della spudoratezza fatta icona? 


                                Andiamo a dormire pensandoci,
                                ci svegliamo con questo fiele in bocca
                                e c’è chi ha il coraggio di chiederci
                               d’essere più pacati e costruttivi, 
                               d’avere più distacco, più ironia…



                               Sia detto, amici, una volta per tutte:
                               a correre rischi non è soltanto
                               la credibilità di ognuno.
                               qui è in gioco c’è la storia che ci resta,      


                               il poco che ci manca da qui alla morte.



                             

                                     



 

giovedì 23 febbraio 2006


- Mirellaaa! Sei tu  Mirellaaaa ?


- Ciao Sara, sì sono io :-)   ( le sorrido )


- Mirella, fatto pane ,  PER TE!


E un piacere condividere, cari amici, ma  questo pane ha anche un boccone amaro ,è per chi non deve  più passare di qua.


Ho trovato da  Livio:


Un angelo lo si può riconoscere solo vedendo come si comporta con il diabolico.


 


 


 


Mah..a me sembra che questo vento sia niente male , eh?

martedì 21 febbraio 2006

22 FEBBRAIO FELICE COMPLEANNO AL  MIO ADORABILE SIPPI !!!  21 anni fa a quest'ora ero felice, felice, felice, felice, che meraviglia diventare mamma! (scusate, lo so che l'ho già detto un anno fa :P)


 

MESSAGGIO PROMOZIONALE (no comment)


La  velina dei blog  non vi ha ancora mandato in mp il suo numero di cellulare? So che a qualcuno l'ha dato....distrattamente..., mica a tutti però eh!  Ma non è gentile e generosa come sembra, allora. E' il secondo post che le dedico,  mi par proprio insaziabile ;)  


 


 

lunedì 20 febbraio 2006

(ringrazio Maria Grazia per questa riflessione) Fintanto che non leggerò e non sentirò da qualche parte (non importa se al bar o in televisione o sui giornali o nei blog) una MASSICCIA e centrata indignazione MASCHILE, io continuerò a pensare che gli stupri diano in realtà fastidio soltanto a chi li subisce, direttamente o indirettamente: le donne.



Uomini, perchè ci lasciate sole, ma proprio sole?  

giovedì 16 febbraio 2006

1.POST: La fiducia



2. POST Riflessione post riunione plenaria: e se la comunicazione fosse per l'80% energia*, 5 % parole e semantica, 10% parole che scivolano via,5% buchi per sordità, età, rumori di fondo, distrazione fisiologica o morsi della fame causa dieta dei 5 kg in 20 giorni? I conti tornano? Si dice tanto che occorre stare ai contenuti, ma non se ne esce se non si trova qualcuno disposto a decodificare il vero messaggio. * mi basta osservare i volti dei partecipanti ad una riunione per comprendere qual'è il vero messaggio che scende dal pulpito, in-di-pen-den-te-men-te dalle parole messe sul piatto di  portata. I volti conoscono il menu, qualcuno anche la dieta.

domenica 12 febbraio 2006

GIUDICARE SÌ, GIUDICARE NO..


Io forse mi sbaglio e non è una regola, ma come si spiega che finora tutte le persone che io ho sentito dire "non si può giudicare!" siano in realtà le persone che più di altre sententenziano giudizi su tutto e su tutti?  Allora forse è il caso di depenalizzare il giudizio, e restituirgli la libertà che gli spetta, compresa quella di sbagliare. Anche perchè è proprio la facoltà ( e la facilità, anche)  di giudicare ciò che è esterno a noi  ci fa poi compiere il passo successivo, che è quello di verificare e correggere il nostro agire, almeno per gratificarci di coerenza e autostima.


Ma, a parte ogni pretestuale dissertazione filosofica (virgolette, ça va sans dire!), vogliamo almeno ammettere che se qui sotto la parola commenti fosse sostituita con la parola giudizio la sostanza rimarrebbe invariata? E' un  bel post, è uno schifo di post, eccetera;))


E poi, giudicare , pur con  umiltà e titubanza,  è dare un valore, ed è il tentativo (consapevole o inconscio- meglio se cosciente e riconosciuto, così si evitano  i danni  del giudizio sommario collettivo, alias pregiudizio) di riposizionare la nostra visione etica della vita quotidiana e dei rapporti. Mica poco.


venerdì 10 febbraio 2006

(Eh sì Vera io ne ho due di capannine, mica solo quella dove andare a spalar neve



mercoledì 8 febbraio 2006

telefono 06 32111533SENZA FILI


Leggo da Hladick un post che è in realtà un commento di Fiorile,  un post  che a sua volta rimbalza qui e vedremo come va avanti nei vostri commenti . Io dico che è il malinteso, il bello della comunicazione. Se le parole e il linguaggio dovessero essere oggettivi e assoluti non ci distingueremmo ormai più da un robot sofisticato. Tu mi parli e io interpreto, amalgamando le parole e i significati dentro il mio bagaglio di parole e di significati e ancor prima dentro le rappresentazioni e le associazioni che completano questo balletto. Cosicchè parlarsi è una bella fatica, una dialettica senza fine che mette a confronto ciò che tu dici con ciò che io ritengo di aver ascoltato, e in più c'è "quella parte d'ombra che offusca". Tutto in questo modo è movimento e creazione, a partire dal parlarsi. Solo la buonafede conta, ma conta parecchio. E quella la puoi solo sentire, difficilmente dimostrare. Insieme forse alla consapevolezza che i malintesi esistono, e sono maledettamente più frequenti (permettetemi, visto che si avvicina San Valentino) dei baci. Il post di Hladick, che è appunto il commento di Fiorile, ve lo lascio con piacere qui sotto.


"quando due si scambiano parole l'uno con l'altro resta un'ombra, come una macchia; forse è una irriducibile resistenza del senso a farsi interpretare...forse è un segreto, un mistero o pudore che accompagna il linguaggio degli uomini e delle donne? mah! Ma se da una parte l'ombra offusca e fa resistenza alla piena comprensione, dall'altra favorisce la libertà dei parlanti, difende le parole, coprendole, dall'indecenza del senso tutto rivelato e dispiegato, letteralmente dall'oscenità"


 

domenica 5 febbraio 2006

Se ne è discusso e letto in questi giorni.  E poi si approda al   post di Lia, è un piacere educativo leggerla.


Riporto il suo post quasi per intero, ringraziandola.


4 Febbraio, 2006



Bamboccioni superficiali



1satira_esporto.GIF



C'è un tale intreccio di insensatezza, in tutta questa faccenda, che una non ne parla perché non sa da che parte cominciare.
Le occasioni per sentirsi estranea, davvero, non mancano.


Ieri ci scambiavamo sms, io e la collega in Egitto.
Mi diceva che i ragazzi sono furibondi, in università.
E mi sembrava di vederli, ne prevedevo i discorsi, sentivo l'imbarazzo della collega immaginando quello che proverei io al suo posto.
"Apparteniamo a un mondo di una superficialità insopportabile."
E basta.
Non c'era altro da dire.


C'è qualcosa che noi abbiamo perso chissà quanto tempo fa e che nessuna legge può imporre. Si fa fatica a spiegare cos'è. Quello che pensi è che qui sei costretta a farlo, se vuoi farti capire, mentre là verresti compresa al volo persino dal più sperduto beduino analfabeta del deserto.
Parlo del rispetto gratis, quello che non è soggetto a norme di legge. Della capacità di fermarsi prima di offendere profondamente l'altro, e non perché una norma te lo imponga ma perché, semplicemente, ciò che ti manca è proprio la volontà di offendere.


In una società in cui essere delle persone perbene è un valore, la dimensione che trova spazio è quella dell'intelligenza etica.
Io me la ricordo, sai?
Un tempo ce l'avevamo anche noi.
Anzi: più responsabilità si avevano e più era doveroso possederla.
Sono cresciuta in un mondo in cui era impensabile che la stampa di un continente usasse i precetti religiosi di una civiltà diversa a mo' di carta igienica solo per dimostrare che poteva farlo. Il punto, nel mondo che rimpiango, era che non lo si voleva fare.
Essere figlia di quel mondo fa sì che io, oggi, non mi sognerei mai di mettermi a esibire disegni di Maometto a mo' di sfida in faccia a un musulmano, e non certo per paura: perché mi sembrerebbe un'azione stupida e incivile, semplicemente. Perché la mia intelligenza etica me lo impedirebbe. Perché non mi riconoscerei più, se lo facessi. Perché non trovo che potere fare una cosa sia un motivo sufficiente per farla.


Per trovare un mondo in cui cristiani e musulmani convivono da secoli e secoli bisogna, è noto, andare in Medio Oriente. E lì lo vedi con i tuoi occhi, lo senti con il tuo corpo quanto possono cambiare i rapporti a seconda di ciò che prevale, tra l'etica del "potrei ma non lo faccio" e il darwinismo nudo e crudo del "posso e quindi lo faccio". Mi pare che la semplice osservazione della realtà, la constatazione del perdurare di questa convivenza attraverso la Storia, dimostri che la scelta etica, fragile e costantemente da rinegoziare per sua stessa natura, sia quella che prevale nel sentire collettivo anche e soprattutto dei musulmani, fosse solo per la loro prevalenza numerica.
Vorrei che continuasse ad essere così.
Vorrei che la nostra sciocca superficialità la smettesse di avere come unico antidoto il buon cuore, sempre più pericolante, di intere società la cui esistenza si dipana sotto il nostro mirino, militare o mediatico che sia.
E' un miracolo che questo equilibrio si mantenga ancora, a dispetto della tenacia dei provocatori e, guarda un po', della povertà e basso indice di scolarizzazione della maggioranza dei provocati.
No, per dire.
E me li sto immaginando con i capelli ritti, i miei ex studenti cristiani.


Perché è la complessità, poi, ciò che veramente naufraga sotto i colpi semplicistici che assestiamo a quel mondo ogni volta che possiamo. La ricchezza, la fertilità delle contraddizioni non possono resistere alle ricettine beote che la nostra opinione pubblica si è prima bevuta fino al rincitrullimento totale e che adesso spaccia per verità, diritti e libertà, senza accorgersi di quanto appaia vacua, ipocrita e, francamente, vile.
Ci si radicalizza, noi e loro. E' ovvio.
Così, sulle sciocchezze. Per nostro vezzo pseudolibertario.
Perché abbiamo tanto, tantissimo potere e lo usiamo come il figlio del Cummenda usa il Ferrarino, da fighetti ignoranti.


Dice: "Dai! Lanciamo un concorso per trovare disegnatori del Profeta, così facciamo un bel "pappappero" ai musulmani che lo considerano blasfemo".
E, ovvio, come vuoi che non ne trovino? E con onore di stampa a prescindere, per quanto le vignette siano sciocche, insipide, xenofobe. Certo che ne trovano!
E' da settembre che i musulmani del mondo cercano di spiegare che non è giusto né bello, leggi o non leggi, che vengano compiuti, a mezzo stampa, atti delberatamente offensivi contro la loro religione.
Lo hanno detto in tutti i modi, usando tutti gli strumenti civili e democratici di cui disponevano.
Niente.
Più loro si offendono e più le vignette vengono pubblicate.
Alla fine si incazzano - a febbraio, esausti; mica a settembre - e i cattivi sono loro.
Pensa.
E così ci ritroviamo col paradosso assoluto di uno Sherif che, a Otto e mezzo, deve spiegare a un Ferrara che fa lo gnorri come mai i musulmani si sentono offesi, per queste cose, mentre alle sue spalle un video gigante proietta un'enorme faccia di Maometto con una bomba al posto del turbante.
E io lo guardavo e gli invidiavo la pazienza, la lucidità assoluta. Ma quanta ce ne vuole?
E quanti possono averla, quanti fighetti occidentali la avrebbero, al suo posto?


Io, dicevo, credo che siamo fondamentalmente sciocchi.
Siamo, di fatto, una società gestita da una generazione - la mia e quella immediatamente precedente - il cui eroismo consiste nell'essersi opposto "a papà".
"Papà" inteso come famiglia, come istituzione scolastica, religiosa, come autorità e freno a una realizzazione di noi stessi e del nostro piacere che avevamo lì, a portata di mano, e ci è bastato strepitare un po' e correre davanti a un celerino per farlo nostro.


Non abbiamo fatto guerre, non abbiamo mai veramente sofferto.
Non abbiamo costruito né paci né ricchezze.
Abbiamo ereditato entrambe e ne abbiamo usufruito.
Invecchiando, è noto, non si diventa più eroici: solo così mi spiego questo fermo-immagine così straziantemente evidente nella nostra sinistra, sempre pronta a combattere solo e soltanto le battaglie che ha già vinto.


La libertà di espressione.
La libertà di satira.


L'Italia è, pare, al 74esimo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa. Siamo solo "parzialmente liberi", secondo Freedom House e, del resto, basta uno sguardo ai media per accorgersene.
Però ci si mobilita per lo sfizio di pubblicare la faccia di Maometto.
E si scomoda Voltaire, si tira fuori "il sangue versato per la libertà" e c'è un giornalista tra i miei commenti a cui prudono le dita dalla voglia di disegnare un turbante.
Poi però siamo 74esimi e nessuno si scomoda. Perché, sai che c'è, siamo consumatori. Non protagonisti della nostra storia. E avere avversari lontani, battaglie a noi estranee, improbabili eroismi contro esotiche fatwa indonesiane seduti al pc ci sottrae alla fatica, ai rischi e agli obblighi che deriverebbero dal prendere veramente atto del nostro 74esimo posto.
Difendere la libertà di satira in Danimarca dà più soddisfazione che farlo in RAI.
Combattere solo le battaglie già vinte ci permette di sognarci vincenti a dispetto di qualsiasi realtà.


Solo che gli altri se ne accorgono, questo è il guaio.
La nostra contraddizione è evidente e la nostra ipocrisia è offensiva tanto o più del volto di Maometto riprodotto.
Il nostro atteggiarci a soloni è insopportabile soprattutto per questo: perché siamo incapaci di guardarci allo specchio.
Crediamo di non avere niente da imparare e ci ostiniamo a volere insegnare chissà cosa, beatamente inconsapevoli della disistima totale e crescente che facciamo di tutto per meritarci.
Un miliardo di persone cercano di dirci qualcosa e noi non ci degniamo di ascoltare perché siamo certissimi di non avere nulla da apprendere, nulla da scoprire.
Noi ascoltiamo solo se ci toccano le tasche o l'incolumità.
Siamo totalmente privi di curiosità, come il figlio del cummenda che gira col Ferrarino e fa danni da idiota, perché non ha mai avuto il bisogno di fermarsi un attimo a pensare.


Questo nostro pavloviano bisogno di combattere in eterno le battaglie che ci hanno gratificato a 20 anni è particolarmente insopprimibile quando si tratta di religione.
Solo che allora combattevamo la nostra, mica quella degli altri.
Solo che combattere la nostra voleva dire combattere un'istituzione effettiva e concreta, non il rapporto con il trascendente di popoli di cui ignoriamo tutto.
Solo che allora era l'autorità, il nostro nemico, mentre adesso il potere è tutto nelle nostre mani.
Solo che per noi la religione era uno strumento di oppressione che calava dall'alto, non lo strumento che popoli interi oggi riversano nelle urne elettorali col desiderio di liberarsi da altre, più urgenti oppressioni.
Solo che, soprattutto, noi abbiamo combattuto la religione quando questa non ci è servita più.


Vaglielo a dire a chi si sveglia la mattina senza sapere se arriverà vivo a sera, che dopo la vita non c'è nulla.
Dillo a chi convive gomito a gomito con la morte e non solo, non necessariamente perché lo opprimono, gli sparano addosso o lo bombardano ma perché la morte è presente in tutto ciò che fai, semplicemente.
In tutto.
Nel lavoro, fatto senza uno straccio di sicurezza. Nell'acqua del Nilo che trasmette la bilharziosi e nell'aria di piombo delle grandi città dove finiscono le nostre macchine usate.
Nelle infrastrutture assassine e nella mancanza di garanzie, di protezioni che non siano quelle della famiglia, del gruppo e dell'etica condivisa.


E' facile essere fieramente atei quando i propri bisogni primari sono garantiti e si ha tempo e modo di cercare sulla terra i piaceri che altri rimandano a tempi e vite migliori.
Ed è molto arrogante vantarsi di ciò che ci risulta facile.


L'Islam non è un obbligo calato dall'alto e imposto con la repressione, a punta di fucile. Se tanta gente lo difende è perché - ma è così difficile capirlo? - lo ama.
Perché lo trova bello, importante.
Perché fa stare bene, rende la vita più sopportabile, unisce, dà un senso ad un caos che sarebbe annichilente, altrimenti.


Ma cosa ne sappiamo, noi?
Della moschea come luogo di incontro, di chiacchiera, di sonnellino, di gioco per i bambini. Del proporre a uno sconosciuto di pregare assieme, in un posto qualsiasi, perché pregare assieme è più bello ed importante. Che idea abbiamo della portata emotiva, della serenità, del senso di pienezza che ti può dare un'appartenenza di questo genere?


Io me l'ero sempre chiesto, cosa provasse la gente che credeva in Dio. Mi era sempre sembrata un'incomprensibile stupidaggine, una superstizione per allocchi o una manifestazione di conformismo sostanzialmente disprezzabile.
Credo di averlo capito là, che cos'è.
Di sicuro, ho capito che non ho proprio niente da insegnare, a nessuno. Tanto meno il nostro vecchio slogan di "combattere tutte le religioni".


Può darsi che sia oppio.
Niente di più probabile, anzi.
Ma l'oppio esiste nella Natura e serve per non sentire dolore.
Mi pare una funzione importante.


Soprattutto, oppiomani lo siamo tutti. Noi più di loro, ché la nostra resistenza al dolore è di gran lunga minore.


E non ci rendiamo manco conto che il nostro oppio, oramai, è la guerra che combattiamo contro un mondo su cui proiettiamo tutti i nostri fantasmi per non essere costretti a farci i conti quando ci guardiamo allo specchio.



P.S. Ah, un'ultima cosa: quelli che difendono il diritto alla libertà di satira dovrebbero ricordare che la satira è uno strumento dei deboli contro i forti.
Quando viene usata dai forti contro i deboli il risultato è più o meno questo:


1inferiorita.JPG

Non è che ci sia proprio da esserne fieri.


Inviato da lia 

giovedì 2 febbraio 2006

Sapersi salutare, quando si parte, quando il viaggio percorso insieme è finito. Non è da tutti, saper salutare. Qualcuno il saluto d'addio lo evita proprio, (ma non sarà ,anche, perchè la parola addio fa pensare agli eroi tragici del romanticismo?) sono quelli che  lasciano il vuoto improvviso, angosciante. Ad altri vien meglio  la tattica del lasciar intendere che ci si vedrà ancora, e non dicono quando, e non si fanno più vivi,  ma come distrattamente.  Io, sarà perchè chi è stato abbandonato a due anni da una madre non fa altro che cercare il saluto mancato nel buio di uno spazio dei ricordi inafferrabile , io se posso  scelgo di salutare con le parole e con gli sguardi . Conosco donne ( e mi sembra anche uomini) che avrebbero sofferto diversamente una separazione, se ci fossero state le parole lunghe,  condivise, per  comunicarla. Un cambiamento che passi da una vera separazione (dalla persona o soltanto dal sentimento che aveva rappresentato) richiede  forza, il giusto tempo, centratura, palle anche, e molto, molto cuore.


 

mercoledì 1 febbraio 2006

SE E' VERO (come dice un mio amico) CHE I SOGNI AIUTANO A CRESCERE, ECCO UN PICCOLO AIUTO!